Te Deum

Anno Composizione: 1994 - 99
Organico: coro, voci bianche, organo e orchestra
Edizione: Casa Musicale Sonzogno


  • Te Deum laudamus
  • Aeterna Fac
  • In Te Domine speravi


Te Deum (I), Te Deum (II), Tu Rex gloriae, Te ergo quaesumus, Aeterna Fac, Salvum fac populum, In Te Domine speravi.


Non si conosce l’autore del TE DEUM, l’antichissimo inno di ringraziamento che chiude la messa dell’ultimo giorno dell’anno e che viene intonato ogni domenica, a Natale e nell’ottava di Pasqua nella Liturgia delle Ore. Forse venne scritto da Sant’Ambrogio, o forse da Sant’Agostino. Personalmente mi piace immaginare vera la leggenda che vede i due Santi cantare con giubilo il Te Deum alternandosi vicendevolmente i numerosi versetti. Il Te Deum è un testo particolare, la preghiera si snoda alternativamente su due piani distinti: quello della lode e della invocazione diretta, dove l’orante è parte attiva ed alza la propria voce verso Dio - Te Deum laudamus, Te ergo quaesumus ecc. - che apre e, soprattutto, chiude l’Inno, e quella della descrizione o meglio della visione dei canti e delle lodi dei Beati nella Gloria dei cieli.
I due piani non vanno separati, ma compresi in un’unica formulazione che, sotto aspetti diversi, è un inno al concetto di assoluto e di eterno. Nei testi liturgici è spesso presente il concetto di “eternità”, intesa in entrambe le direzioni temporali, prima e dopo il tempo umano, il tempo storico: “in saecula saeculorum”, “non erit finis”, ma anche “ante omnia saecula” fino alla summa evangelica del primo capitolo di Giovanni “In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil, quod factum est.” Ed è presente anche il concetto di “infinito”, espresso il più delle volte dal semplice concetto di “Dio”, il che è la stessa cosa.
Il cercare di dare senso metaforico all’inconcepibile idea di infinito (o di eternità) è stata spesso tentata dalla musica. In questo senso alcune forme, come il rondò o la passacaglia, e alcuni procedimenti come il “perpetuum mobile” o il canone infinito, fondati sul concetto di ripetitività e di circolarità possono richiamare in qualche modo l’idea di infinito o di eternità.
Forse la realizzazione musicale concettualmente più alta (forse perfetta) dell’idea di eterno (in senso temporale) e di infinito (in senso direzionale) è quella del quinto canone “per tonos” dell’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach, dove la musica, realizzando una peculiare forma a spirale, sale di un tono ogni otto misure secondo un procedimento virtualmente inestinguibile: una autentica musica dell’intelletto, irrealizzabile nella completezza della sua concezione (si può immaginare l’attacco come l’innesco di una reazione a catena che, superando la soglia dell’udibile, raggiunga, in un tempo infinito, le frequenze dell’infinito, e con esse Dio) e, in questo rapportarsi all’idea di uno svolgimento senza fine, superiore al concetto, eterno ma statico, del canone perpetuo.
La perfezione musicale, astratta, oltrepassa i concetti espressi dalle parole: in questo senso l’esempio di Bach resta insuperabile. Il cercare di descrivere l’indescrivibile è un po’ il fine perseguito dal testo del Te Deum: la visione degli Angeli e delle Potenze dei Cieli, il coro degli Apostoli, dei Profeti, la schiera dei Martiri, l’inconcepibile moltitudine dell’umanità intera (passata e futura, dall’inizio alla fine dei tempi: è la realtà espressa nel semplice concetto “sancta Ecclesia”) uniti e distinti in un coro inimmaginabile:


«Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre foro.
E quella che vedea li pensier dubi
ne la mia mente, disse: “I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son sublimi.
Quelli altri amor che ‘ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ‘l primo ternaro terminonno.
E dei saper che tutti hanno diletto,
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogni intelletto.»
(Dante, Paradiso, Canto XXVIII)


In continuazione Dante ci ricorda, nel Paradiso, come le parole risultino insufficienti a dare anche una pallida idea della sua visione. E’la seconda parte del Te Deum che, facendo appello a quei concetti di eterno e assoluto, ci permette di avvicinarci, intellettualmente a quella visione: “Aeterna fac cum Sanctis tuis in gloria numerari”, “extolle illos usque in aeternum”, “in saeculum et in saeculum saeculi” e soprattutto “non confundar in aeternum”.


La musica sacra si è mossa sempre sul doppio binario della tradizione e dell’innovazione: la prima, incarnata dal testo ufficiale gregoriano, la seconda dal resto, cioè dal seguito, della storia della musica. Sono due elementi necessari, a testimonianza di quell’essere nella storia e al di fuori di essa, espresso dal Te Deum e precedentemente illustrato: il ricorso alla formula gregoriana tradizionale nell’incipit dell’Inno e di alcuni versetti seguenti, affidata al suono limpido della voce bianca, sta ad indicare l’irrinunciabile legame (in una prospettiva a-temporale) con la fonte musicale originaria.
Ho diviso il testo del Te Deum in sette parti, cercando di interpretarne, più emotivamente che descrittivamente, i diversi contenuti. Desidero fare solo alcune brevi segnalazioni che, spero, possano essere utili all’ascolto.
Dopo l’incipit gregoriano, l’adagio orchestrale che precede l’entrata del coro vero e proprio vorrebbe idealmente, col suo alternarsi di crescendi e diminuendi incrociati, portarci fuori del tempo, quasi nello spazio aperto.
La successiva descrizione degli Angeli e delle Potenze celesti è affidata a un melodizzare in stile gregoriano, precedendo l’intonazione dei tre “Sanctus” che appaiono e scompaiono come delle visioni che giungono da lontano (o, meglio, dall’alto), così, come credo, volle immaginare Dante:


«Sí com’io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: “Santo, santo, santo!”.»
(Dante, Paradiso, Canto XXVI).


Il “Dominus deus Sabaoth”, in canone a otto voci (aggravato nelle parti femminili) vorrebbe immaginare l’effetto della moltitudine che avanza, fino al canto vero e proprio del “pleni sunt coeli et terra...”


Non trovo altre parole che quelle di Dante per descrivere il colore cercato, specie nella parte orchestrale, nell’attacco del “Tu Rex gloriae” (indicazione di tempo: Luminoso):


«O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te, ami e arridi!»
(Dante, Paradiso, Canto XXXIII).


Ho sempre ammirato il Te Deum di Anton Bruckner che da sempre è il mio preferito. L’”Aeterna fac” ad esso chiaramente si ispira.


Ho scritto gli ultimi due brani, “Salvum fac populum” e “In te Domine speravi” prima degli altri. In particolare, l’ultimo, era stato composto nel 1995 e dedicato a don Oscar Carbonari, per il suo cinquantesimo anno di sacerdozio. Da allora decisi di completare, poco alla volta, tutto il testo del Te Deum. Due anni dopo scrissi il “Salvum fac populum” e, grazie all’invito di Fabio Battistelli e Marcello Marini, ho completato il brano lo scorso anno. Nonostante la lunga gestazione, mi sembra che il lavoro sia sufficientemente unitario; d’altro canto ho sempre tenuto ben presenti le soluzioni formali e musicali del brano scritto per primo. In particolare l’adozione di formule basate su triplici ripetizioni di stessi frammenti o blocchi. Mi pare superfluo sottolinearne la motivazione: il Te Deum, per l’appunto, è conosciuto anche come “Inno alla S.S.Trinità”.


Carlo Pedini, marzo 1999